DOVE OSANO I BAMBINI

DOVE OSANO I BAMBINI di Matilde Cavaciocchi (disegni acquarello di Maria Logli)

Talvolta nell’ambiente del Judo nascono interessanti discussioni sui regolamenti arbitrali giovanili, sul modo di condurre le competizioni (o confronti) a questo livello, sull’opportunità di favorire un ambiente accogliente, educante, “dal volto umano”, come dicono taluni, contrapposto a quello corrente, dominante, conosciuto, dove la competizione è proposta e (automaticamente) sentita in maniera preponderante. La discussione spesso comprende sia il regolamento arbitrale da adottare che l’opportunità di conferire medaglie e premi, e se sì, si discute sul come, medaglie tutte uguali o medaglie per primo, secondo e terzo classificato. E le cinture poi? Ognuno tiene la propria o si adotta il modello cintura bianca, cintura rossa ? La discussione si allarga anche relativamente al comportamento degli insegnanti che seguono gli incontri, insegnanti a bordo materassina che danno consigli o insegnanti presenti ma in quanto spettatori neutrali? E il pubblico, come ci si aspetta che si comporti? Genitori chiassosi nell’espressione del tifo, ingombranti nelle aspettative, o genitori che semplicemente applaudono alla fine del combattimento?

Talvolta i bambini si presentano ai confronti tecnici di tipo Uisp o tradizionali con la cintura bianca e rossa (in uso in Federazione) al posto della propria (in uso nel sistema tradizionale), mettendo qualche difficoltà nell’organizzazione delle pools, la cui composizione deve ovviamente tenere conto del reale grado degli allievi. In genere si scatenano polemiche anche pesanti, sia tra i bambini che tra gli insegnanti…

Il problema è che tutto ciò mette in imbarazzo i bambini, ed è su questa cosa porrò l’accento da ora in poi.
Li mette in imbarazzo perchè viene evidenziata pubblicamente una differenza tra quello che loro fanno normalmente e quanto invece richiesto in quella sede particolare (evidenziata pubblicamente laddove loro sono in difetto…), li mette in imbarazzo perchè apparentemente “può sembrare” che si vogliano avvantaggiare in maniera non proprio corretta in un contesto in cui nessuno lo fa (praticamente non dichiarando il proprio grado in maniera chiara), li mette in imbarazzo perchè nel peggiore dei casi entrano in un corto circuito rispetto al modello educativo
(o diseducativo) che hanno assimilato nel loro ambiente abituale.

Ad esempio, in Federazione c’è un’usanza diffusa che è quella di conferire i gradi ad un ritmo molto lento, poichè le gare sono divise per cinture. L’idea è quella di avvantaggiarsi il più possibile, all’interno di un sistema nel quale tutti o quasi agiscono così. Da noi la cosa è molto diversa, e questa differenza non può non venire notata dai partecipanti.
Il corto circuito educativo, o pedagogico, può diventare una cosa alquanto spiacevole al momento in cui non si hanno i mezzi necessari per elaborarlo a dovere e uscirne vincenti, accresciuti, maturati. E’ quella cosa che avviene quando i genitori dicono cose “troppo diverse” tra loro, quando discutono impropriamente davanti ai figli, quando uno fa l’amico e l’altro il genitore, avviene quando non c’è una consonanza tra l’atteggiamento dell’insegnante di scuola e quello del genitore (quante volte si vedono professori desautorati dai genitori, a volte in maniera poco opportuna, o anche viceversa), avviene insomma, a gradi diversi e a diverse intensità ogni qualvolta che due modelli educativi si scontrano nella testa dei bambini e nella loro realtà. Un caso tipico è quello dei figli provenienti da genitori separati, questo tanto per chiarire il concetto.

I bambini hanno la caratteristica di assorbire le abitudini, le idee, la cultura degli adulti per loro significativi. Questo accade a causa del fatto che assorbire, empatizzare, imitare è fisiologico, è tipico della loro natura di bambini : quando siamo piccoli da una parte si assorbe, si imita, si empatizza per imparare, per imparare le usanze della vita, per conoscere il nostro ambiente, dall’altra lo si fa per vivere, proprio come forma “biologica” di adattamento all’ambiente nel quale ci troviamo, poichè se non ci fosse un adattamento ne andrebbe della nostra sopravvivenza, della nostra collocazione nel mondo, della nostra possibilità di essere accettati in un gruppo, pena il rimanerne esclusi, restare da soli, isolarsi. Sto parlando di aspetti neurofisiologici oramai trattati in lungo e in largo dalla psicologia, dalla neuropsichiatria, dalle neuroscienze. Non ultima, la scoperta del sistema specchio (meglio conosciuta come neuroni specchio), il quale è responsabile tanto della possibilità di imitare dal punto di vista motorio, quanto di empatizzare con chi si ha di fronte, aspetto questo che la rende ancora più interessante.
Ne “L’evoluzione della mente” di Merlin Donald (2004), viene presa in considerazione l’ipotesi
che l’evoluzione del cervello sia avvenuta conseguentement al fatto di costituirsi in società, da parte dell’uomo primitivo, per aumentare le possibilità di sopravvivenza del gruppo visione confermata da Vittorio Gallese (2003), nel ruolo del sistema dei neuroni specchio, nella condivisione di uno spazio noicentrico in cui la risonanza a livello cerebrale porterebbe alla comprensione delle azioni e dei sentimenti altrui.

Dal punto di vista psicologico, inoltre, si può dire che c’è una sorta di incapacità nel mettere in discussione le figure di accudimento, specialmente quelle genitoriali, perchè il genitore ti accudisce, ti ha dato la vita e ti mantiene in vita, quindi, a livello del sè profondo non è discutibile, poichè confutare o contrastare ciò andrebbe a minare il rapporto (di accudimento) fin dalle sue radici, quindi la vita stessa.
Si vedono molti adulti rimasti “intrappolati” negli schemi familiari, dai quali non sono riusciti a liberarsi nonostante il disagio che questo comporti loro ( quando comporta disagio…). Questo probabilmente perchè, oltre ad essere l’animale più complesso dal punto di vista neurofisiologico, l’essere umano vive rispetto ai genitori un periodo di dipendenza e di accudimento lunghissimo in confronto alle altre specie viventi.

Una volta ho conosciuto un uomo che era alcolizzato dall’età di 9 anni, gli chiesi cos’era successo, e lui mi raccontò che in casa sua tutti bevevano. Fu iniziato all’alcool dal nonno.
Nella sua mente di bambino questo rappresentò un segno di interesse nei suoi confronti, senz’altro sbagliato, decisamente orribile, ma pur sempre un segno d’interesse. Probabilmente l’unico.
Facciamo con ciò che abbiamo, respiriamo l’aria che respiriamo.
Questo dunque, il materiale umano con il quale noi Istruttori abbiamo a che fare, e cioè con esseri particolarmente permeabili, assorbenti, imitativi. Indifesi, mi viene da dire.
Con esseri che raccolgono per loro struttura e connotazione le istanze delle figure adulte per loro significative, e le fanno proprie.
Dobbiamo avere perciò molto chiaro cosa comunichiamo in realtà ai nostri allievi, e cosa in realtà vogliamo da loro.
Perchè scrivo “in realtà”?
Prendiamo il più becero tra i libri di pedagogia, dirà sempre la stessa cosa, e cioè che sono le nostre reali intenzioni, i nostri reali pensieri, le nostre vere convinzioni, i reali desideri e le aspettative che nutriamo nei loro confronti che loro andranno a percepire, chiediamo all’ultimo psicologo del mondo se contano più le nostre parole dei nostri comportamenti, dei fatti, e risponderà di no.
Bisogno di attenzione, bisogno di considerazione, bisogno di accudimento, bisogno di aiuto, bisogno di accettazione. Bisogno d’amore. Questa è la richiesta.

E noi, invece? Noi adulti, noi insegnanti, noi genitori, noi di cosa abbiamo bisogno?
Forse è opportuno domandarselo, anche perchè loro, i bambini, comprendono, magari non te lo sanno spiegare, però comprendono.
Noi Insegnanti, noi Istruttori, noi Allenatori, noi Maestri abbiamo il coltello dalla parte del manico, siamo noi che dirigiamo, siamo noi che insegnamo, che educhiamo, che conduciamo, e questo (potere) pare che ci esima dal porci a nostra volta delle domande in tal senso.
Il primo assioma della comunicazione umana ci dice che d è impossibile non comunicare: qualsiasi interazione umana è una forma di comunicazione. Qualunque atteggiamento assunto da un individuo, diventa immediatamente portatore di significato per gli altri.
Se si pensa che il nostro ruolo di Insegnanti sia limitato all’insegnamento di una materia, bisognerebbe credere di essere dei robot. Qualsiasi allievo che venga in contatto con noi verrà in contatto con la nostra cultura, con la cultura del posto, con le nostre idee, con i nostri valori, e ne risentirà, in un modo o nell’altro ne verrà a fare parte. Il nostro essere è parte integrante di ciò che viene proposto a livello didattico, che ci piaccia o no.

Quindi noi abbiamo una responsabilità importante nella formazione non solo judoistica o sportiva dei nostri allievi, ma anche sotto il profilo dello sviluppo della personalità, del loro essere, dei loro valori, della loro cultura, e magari anche di quella dei loro genitori.
A questo punto qualcuno può pensare che in ogni caso l’educazione ( sia essa bella o brutta, sia che possa essere considerata positiva o negativa) rientri sempre in un processo di induzione, per cui c’è in ogni caso una forma di influenzamento, di richiesta, di “direzionamento” del loro fare. Questo è vero in parte, e comunque la si veda può essere considerato da qualcuno come un fatto non positivo, perchè alla fine priva l’individuo dell’espressione della sua libertà. “Educazione e libertà” è tra l’altro il titolo di uno dei libri più famosi di Marcello Bernardi, dove questo argomento viene ampiamente dibattuto. Comandare, ubbidire, essere liberi dalla stratificazione sociale, essere omologati e rinunciare alla propria umanità, ribellarsi, oppure tentare l’impossibile per realizzare il possibile…

In effetti la vera libertà di un individuo si estrinseca attraverso il raggiungimento di una maturità personale per cui ci si responsabilizza, ci si rende consapevoli delle nostre azioni e delle loro conseguenze. La libertà non sussiste nel caso in cui il fare come ci pare comporti conseguenze per gli altri o per noi stessi che non mettiamo in conto. In questo caso più che di libertà si dovrebbe parlare di incoscienza, o di mancanza di consapevolezza, che mal si coniuga con l’idea di libertà.
La libertà è di fare e di non fare, non tanto di seguire più o meno compulsivamente un istinto, un impulso. Fa parte di un processo, di una sorta di traguardo che va raggiunto attraverso l’esperienza, compresa quella di vivere dei condizionamenti da parte degli altri e di potersene liberare quando essi diventino disfunzionali ad una sana espressione di noi stessi. La libertà è un traguardo, lungo e complesso, spesso faticoso da raggiungere. Diceva la stessa cosa Abrham Maslow a proposito dell’autorealizzazione.
Diciamo pure a questo punto che il nostro insegnamento può dare alcuni spunti in questo senso, o può considerare la libertà come un valore da comunicare. C’è un “clima” che pervade le nostre lezioni. La figura del Maestro come colui che incarna un pensiero forte è stata discussa a più riprese, poichè il pensiero forte rischia di intrappolare un individuo, anche se è un pensiero positivo e pieno di valore. Resta pur sempre una maniera per “indurre” i nostri allievi ad essere come noi, da cui le critiche pedagogiche che sono seguite in questi anni.

Va fatto un distinguo allora tra quello che può rappresentare un pensiero forte , dove il rischio è quello di creare cloni di noi stessi, ed invece le regole da dare, che rappresentano decisamente quell’ingrediente educativo condivisibile da tutti che consente che il gioco si svolga in maniera tale che non ci siano morti e feriti, per cui tutti si parte dalla stessa linea, per cui nessuno si avvantaggia impropriamente alle spalle degli altri, per cui si vince o si perde ma all’interno di una cornice formalmente corretta ( Serafino Rossini dice formalmente etica) e che sia la stessa per tutti. Il paragone che mi viene è quello di guidare l’auto, la scuola guida ci insegna cosa fare per viaggiare agevolmente e non avere o provocare incidenti, ad un incrocio c’è chi passa e chi si deve fermare, qualche volta ci saranno semafori, altre volte bisogna aver chiaro come funzionano le precedenze, i limiti di velocità, la distanza di sicurezza. Non è a caso che porto l’esempio del codice stradale: questo esempio mi fu fatto molto tempo fa da Jerome Liss, il neuropsichiatra e psicoterapeuta che ha dato vita a quella che è stata definita la “comunicazione ecologica”, ben conosciuta in ambito pcico-pedagogico. Le stesse cose che ho detto a proposito del rispettare le precedenze ad un incrocio si possono applicare alla comunicazione umana: saper miscelare bene il fatto di ascoltare col fatto di parlare, l’autoasserzione con l’accoglimento delle istanze altrui, il controbattere senza ledere l’opinione altrui, contestare il contenuto senza contestare la persona, sono alla base di una comunicazione corretta, e per corretta intendo dire che innesca un circolo virtuoso, dove anche due persone in conflitto possono dare spazio a chiarimenti piuttosto che ad ulteriori conflitti.
Se noi riusciamo a far passare messaggi come questo, prendendo cioè in considerazione il principio che quanto più si rispettano le regole, tanto più avremo la possibilità di giocare un gioco virtuoso in quanto possibile e sostenibile per tutti, non solo dimostreremo di avere per ciascuno dei nostri allievi un preciso interesse, ma con molta probabilità daremo vita ad un ambiente di palestra tutelato in cui tutti quanti sentiranno di valere, qualsiasi sia la loro carriera o non carriera di atleta. Varranno a prescindere, giocheranno a prescindere, saranno a prescindere.

Se la nostra attenzione invece è incentrata sul risultato sportivo ( o per meglio dire incentrata prevalentemente o totalmente), cioè sulla prestazione, ecco che daremo vita ad una scala di valori differente, di tipo selettivo, che ricalcherà un modello competitivo. Lo stesso che è sotteso a molta della nostra realtà quotidiana fatta di vincitori e perdenti, che conferisce cioè grande importanza alla competizione come unica possibilità di autoaffermazione.
Vincere o perdere sono aspetti correnti che fanno parte della nostra realtà quotidiana, ma il valore, l’accento che poniamo su di essi, l’importanza che diamo loro viene da noi stessi, dal nostro modo di vedere la vita, dalle nostre matrici culturali, familiari, ancora una volta dai nostri convincimenti o per meglio dire da quelli che ci hanno indotto ad avere i nostri genitori, i nostri professori, i nostri allenatori e così via.

L’educazione di un bambino è quella riflessa dall’ambiente che lo circonda: in questo, generalmente c’è poca originalità, poca libertà, poco libero arbitrio.
Vincere o perdere possono essere considerati punti di partenza o punti d’arrivo, eventi dal valore assoluto, segni indelebili o percorsi naturali da percorrere con naturalezza, momenti di passaggio per conquistare equilibri superiori, per sperimentare le cose della vita ed assaporarle. Possono altresì essere considerati merce di scambio: mi occupo di te se vinci, mi occupo di te se perdi (esiste anche la cultura del perdente, è un tema di vastissima portata, poco conosciuto e meno scontato, ma che mostra caratteristiche e aspetti psicologici di grande interesse), sono comunque facce della stessa medaglia che implicano giudizi netti più sulle persone che sul loro operato, giudizi, condizioni difficilmente contrastabili, mentalizzabili da un giovane in via di sviluppo.

Il bambino che vince o che perde guarda noi, ha come bisogno di percepire la nostra reazione, nè più nè meno del bambino che cade a terra e ci guarda perchè non sa se mettersi a piangere o mettersi a ridere… e allora se noi siamo ansiosi ci precipiteremo da lui a consolarlo e lui piangerà, se siamo “positivi” ci metteremo a ridere e lui riderà…
Comunque sia fungiamo in tutti i casi da anticipatori rispetto alla sua reazione.
Questa funzione di anticipare, questo potere di direzionare i loro pensieri e le loro azioni continua ad essere insito nella biologia dell’essere umano, la nostra funzione di condurli, che è anche quella di risparmiare loro tutta una serie di errori, trova certamente radici nella lotta per la sopravvivenza. Ma le nostre reazioni agli accadimenti della sua vita avranno altresì un’importanza considerevole nella formazione della sua idea di sè. Banalmente, sono anche chiamate condizionamenti. Ci sono cose che il bambino non sa, e che noi abbiamo in un certo senso il dovere di insegnare, finchè non sarà maturo e capace di fare da sè, cioè finche non avrà fatto tutte quelle esperienze che lo condurranno all’autonomia.

Ma la loro autonomia rientra nei nostri valori?
Il potere, il nostro potere di insegnanti non è, o quantomeno potrebbe non essere un problema, il vero problema.
Anche qui, la questione è come noi lo consideriamo, come lo adoperiamo, cosa ce ne facciamo.
Esistono molti stili di potere, ma sostanzialmente il potere lo si può usare in due maniere ( e qui cito ancora Serafino Rossini), una è riferibile all’ etica del servizio, l’altra alla pretesa di dominio. Il primo modo fa si che il nostro potere venga usato per accrescere quello dell’altro (sembra un paradosso, ma si può adoperare il nostro potere per stimolare percorsi di autonomia, di presa in carico di sè, il fare come accrescimento di se stessi), l’altro modo, cioè la pretesa di dominio, è quello autoreferenziale, che va cioè ad alimentare il proprio potere, noi stessi come unici dispensatori di verità, che al massimo potrà produrre copie di noi, e le copie, si sa, non sono mai interessanti come l’originale…è quel potere che per affermarsi ha sempre bisogno di fare operazioni di diminuzione degli altri, è quel potere che ancora vuole che qualcuno stia sotto e qualcun altro stia sopra. Quel potere insomma, che continua a basarsi sulla logica del confronto, e non su quella dell’incontro.

Per gli appassionati di pedagogia Conativa va segnalato un interessante metodo didattico, scaturito oltre un ventennio fa dal professore francese Gilles Bui Xuan, metodo molto usato con i disabili e particolarmente adatto ai bambini. La tesi del professore è che all’inizio della sua attività sportiva il bambino non sa nulla di ciò, e quindi la nostra azione deve tenere conto di questo facendolo esercitare in esercizi di tipo “emozionale”, dove lui metterà in gioco quello che ha a disposizione, l’emozione, la fisicità, l’istinto. Non verranno presentate didatticamente tecniche da “ricopiare”, ma esercizi inerenti a quell’attività che lui eseguirà in maniera assolutamente istintiva e diretta, senza mediazione tecnica, quindi senza un particolare sforzo cognitivo. Quando avrà raggiunto un certo volume in questa tipologia di esercitazione, quando avrà capito alcune cose elementari (per esempio come non perdere in certi esercizi rudimentali di lotta), sarà pronto per passare alla tappa successiva, quella “funzionale”, dove ancora la tecnica in sè per sè è lontana, ma nella quale lui si potrà cimentare in situazioni-problema, sempre legate alla lotta in questo caso, attraverso le quali svilupperà funzioni, capirà con la propria esperienza come risolvere un dato problema, lasciandogli la libertà per affrontarlo come meglio crede. Sbaglierà, riproverà, sbaglierà di nuovo, ma alla fine tutto ciò avrà stimolato in lui quelle funzioni motorie sulle quali in un terzo tempo, nella terza tappa “tecnica”, baserà il suo apprendimento tecnico. Le ultime due tappe di apprendimento, quella “contestuale” e quella ” dell’esperto” lavoreranno la tecnica ad un livello complesso.

La pedagogia Conativa, fondante di questo metodo, è francese, Conatif, e si basa appunto sulla conazione, sull’impulso, l’ambizione, la preoccupazione dell’allievo in quel momento. Non vuole dunque modificare alcunchè nella mente del bambino, ma si plasma sulle sue capacità naturali.
La durata delle tappe varia da soggetto a soggetto, ben adattandosi alla personalità e alle possibilità di ciascuno.
Noi Marzialisti, ma nemmeno noi allenatori siamo sempre ben disposti ad accogliere metodi didattici complessi che ci “obbligano” a tenere a bada la nostra personalità, e la discussione su tali questioni non solo è particolarmente opportuna, ma per quanto mi riguarda è davvero molto formativa.
Anche perchè, in questo caso, quelli sotto la lente d’ingrandimento, quelli sotto esame, stavolta siamo noi.

oco o niente che favorisca il popolo brasiliano.

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